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Viaggio in Tibet: tutto quello che devi sapere

Aggiornamento: 27 mar 2021

Di Angela Saccaro


Tibet: un quadro generale

Il Tibet è una regione che negli ultimi anni ha visto crescere sempre più l’afflusso di turisti tra i propri plateau. Trattandosi di un territorio particolare per motivi storico-politici, i turisti stranieri devono appoggiarsi ad un’agenzia di viaggi (preferibilmente cinese) e richiedere un visto di ingresso apposito per poter visitare il Tibet in un tour di gruppo. È inoltre necessario scegliere uno degli itinerari proposti dalle agenzie; questi itinerari comprendono tutti una guida turistica autorizzata, senza la quale non è possibile spostarsi in autonomia nella regione.

Quindi, perchè scegliere di recarsi in Tibet?

Le motivazioni possono essere molte e diverse: dall’interesse per i meravigliosi paesaggi a quello per la cultura tibetana, senza dimenticare le ragioni religiose.

In ogni caso, a prescindere da quale sia il motivo principale del viaggio, è bene prepararsi informandosi sulla storia e sulla cultura del posto, tenendo a mente che non ci si reca a visitare un’attrazione turistica, ma un luogo nel quale vivono persone che, in quanto tali, meritano sempre rispetto e discrezione da parte nostra.


La mia esperienza

Ho deciso di andare in Tibet da sola alla fine del mio anno di studio a Pechino.

Il viaggio era previsto a giugno, e ho iniziato a programmarlo ad aprile, contattando l’agenzia che avevo scelto ed informandomi sui biglietti del treno.

È possibile raggiungere Lhasa anche in aereo, ma ho preferito il treno per una ragione di salute – salendo più lentamente all’elevata altitudine della capitale il corpo si adatta con più facilità – e perché volevo assolutamente godermi il tragitto fino alla meta, che ho raggiunto dopo 40 ore di cuccetta dura sul treno Z-21 Pechino-Lhasa.



Appena arrivata nella capitale, con mia grande sorpresa, ho scoperto di non accusare problemi per l’altitudine (circa 3,656 m) e così, mentre i membri del gruppo arrivati in aereo hanno dovuto passare la giornata a letto in preda al mal di montagna, io mi sono avventurata per le strade di Lhasa.

Contrariamente a quanto scritto nei documenti che avevo consultato, ho scoperto che è possibile girare per la città da soli, con l’unico vincolo di non poter entrare nelle strutture religiose se non accompagnati dalla guida.




La città mi ha stupita molto. Più che in altre zone del paese, dove comunque la dicotomia tradizione-innovazione è evidente, a Lhasa saltano subito all’occhio degli elementi che non ci saremmo aspettati di poter vedere in questo posto, come le pubblicità della Budweiser e un KFC (aperto la settimana prima che arrivassimo).



Ovunque per le strade della capitale gruppi di fedeli si spostavano da un luogo di culto all’altro facendo kowtow, mescolandosi al via vai dei commercianti tibetani e nepalesi e ai gruppi di turisti, sia cinesi che stranieri, che si aggiravano tra le bancarelle sotto il sole di giugno.



Il primo giorno in Tibet era passato veloce alla scoperta della città, e all’ora di cena mi sono ritrovata seduta di fronte ad una tavola imbandita di piatti a base di yak.



Tutte le sere, una volta calato il sole, la piazza di fronte al Potala si riempie di persone armate di macchine fotografiche e telefoni: tutti attendono che la grande fontana si spenga per poter scattare delle foto suggestive al panorama notturno della residenza invernale dei lama.



A seconda dell’itinerario che si sceglie, i giorni da trascorrere a Lhasa variano. Seguendo quello classico di otto giorni con una notte al campo base dell’Everest, quelli da trascorrere nella capitale sono tre, e permettono di vedere i maggiori siti di interesse della città senza correre troppo da un posto all’altro.

Salire sul Potala con il turno delle 14, a giugno, e a 3500 mslm è stata una sfida, ma la bellezza e la sacralità dell’edificio sono tali da riuscire a far dimenticare persino la fatica. All’interno del palazzo si aggiravano dei monaci, che spesso poi si ritrovavano accucciati vicino ad una finestra, intenti a leggere alcuni passaggi dei testi sacri.

A permeare ogni ambiente del Potala, e in realtà di tutta Lhasa, è il forte odore del burro di yak usato per le candele da accendere durante la preghiera.

Non sono mancate comunque le sorprese: all’interno di una delle sale, un tempo adibita all’accoglienza dei visitatori stranieri, fanno infatti inaspettatamente la loro comparsa due imponenti lampadari in vetro di Murano, che la guida ci ha detto essere un regalo dell’Italia al Dalai Lama.



Passati i tre giorni a Lhasa ci siamo diretti verso l’Everest, facendo tappa a Shigatse. Tutti gli spostamenti avvengono in autobus, un mezzo che, se da un lato comporta alcune scomodità, dall’altro permette di godere al meglio del meraviglioso paesaggio nel quale ci si muove. Montagne, laghi e fiumi sono sacri per i tibetani, che ne raccontano le storie come se parlassero di amici di una vita, rendendo ancora più evidente la forte connessione tra questo popolo e la sua terra.



Mi piacerebbe poter raccontare della mia notte al campo base dell’Everest, ma la verità è che l’ho passata bloccata a Shigatse con la febbre a 40. In compenso, però, ho visto come funziona la sanità tibetana, e ricordo ancora il motivo decorativo del soffitto della mia stanza.

Tornati a Lhasa, consapevoli che il momento di andarsene si avvicinava sempre di più, abbiamo deciso di uscire per un ultimo giro in notturna della città, seguendo i fedeli nel pellegrinaggio attorno al tempio Jokhang, il più sacro di tutta la regione.



Il giorno della partenza, salendo sul treno che mi avrebbe riportata a Pechino, mi sono resa conto che era davvero difficile dire addio ad una terra così ricca di storia e di tradizione. Stesa nella mia cuccetta, guardando le vaste valli del plateau tibetano scorrere veloci fuori dal finestrino, ho avuto la sensazione che, più che un addio, quello fosse uno 再见 (zàijiàn, arrivederci).



Note:

1. Gesto dell’inginocchiarsi, inchinarsi

2. Conosciuto anche come “bue tibetano”, è un mammifero di grandi dimensioni che vive negli altipiani dell’Asia Centrale.





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